A Torino, l’incrocio che collega corso Regina Margherita, corso Valdocco, via Cigna e corso Principe Eugenio, ancora oggi è conosciuto come il Rondò della Forca. Si tratta del luogo dove si tenevano le esecuzioni capitali: il nome, come facilmente comprensibile, deriva dal fatto che sino al 1863 vi si tenevano le pubbliche impiccagioni.
In epoca napoleonica in piazza Carlina, che allora, ironia della sorte, si chiamava ancora Place de la Liberté funzionava invece la ghigliottina, mentre i roghi e gli squartamenti avvenivano nelle piazze San Carlo e Castello.
Bisogna dire che la pratica dell’impiccagione fu abolita solo nel 1889, ma che fino ad allora i boia, pur essendo dei funzionari ufficialmente designati per eseguire le sentenze di morte dei condannati, non godevano della stima dei propri concittadini e, anche se ben pagati, facevano una vita solitaria e umiliazioni.
Il popolo non poteva accettare che il boia guadagnasse denaro dall’uccisione di altri uomini e per questo lo battezzarono fauss (in italiano falso). L’espressione “Boja fauss!” è ancora molto presente nell’intercalare piemontese per esprimere rabbia o stupore, un sinonimo insomma di “Porca miseria!”.
Anche chi doveva pagare il boia per il “servizio sociale” che svolgeva era restio ad incontrarlo e a ringraziarlo per la dovizia con la quale operava. Si narra che la mensilità che gli spettava infatti doveva essere richiesta di volta in volta dal Boia alla Corte Criminale, il cui capo firmava, rigorosamente con i guanti, l’autorizzazione al pagamento che veniva gettata in terra dove un usciere con le pinze del camino la prendeva e la gettava dalle scale o dalla finestra a seconda di dove il boia era stato fatto aspettare. Da questa pratica deriverebbero i modi di dire prendere con le pinze o anche con le molle.
I boia ed i loro familiari dovevano affrontare tutti i giorni l’intolleranza dei concittadini che non accettavano facilmente di convivere con degli assassini benché fossero indispensabili per la giustizia dell’epoca. Addirittura in certi negozi al boia ed ai suoi congiunti veniva data una scodella nella quale lavare il denaro che proveniva chiaramente dall’uccidere le persone.
Più nello specifico i panettieri in segno di disprezzo gli porgevano il pane al contrario e quando, dopo ripetute proteste da parte del boia alle autorità, un’ordinanza vietò questa pratica sembra che alcuni forni di Torino cominciarono a cuocere uno strano pane a forma di mattone in modo che potesse essere dato al boia sempre al contrario senza che quest’ultimo potesse lamentarsi.
La leggenda vuole che da questa invenzione per aggirare la legge e continuare a manifestare il disprezzo per il boia ebbe origine il pancarré. Da questo strano pane a forma di mattone nel giro di qualche decennio si arrivò alla creazione di quella delizia che oggi conosciamo come tramezzino.
La paternità del tramezzino si deve ai signori Angela Demichelis e Onorino Nebiolo che, di ritorno dall’America, acquistarono nel 1926 lo storico caffè Mulassano di Piazza Castello.
I coniugi Nebiolo, che dall’America avevano portato una macchina per tostare il pane, decisero di rendere innovativo il loro aperitivo introducendo dapprima i toast e, successivamente le stesse fette di pane non tostato farcite in vario modo. Quest’ultima formula ebbe un successo strepitoso e divenne presto una proposta per pranzo.
Il termine tramezzino fu coniato da Gabriele D'Annunzio, che lo creò per sostituire la parola inglese sandwich (che resta comunque nel piemontese sanguis per indicare i panini). Si tratta del diminutivo di tramezzo, inteso come momento a metà strada tra la colazione e il pranzo, nel quale consumare uno spuntino o merenda quale il tramezzino.
La prima ricetta ufficiale del tramezzino fu pubblicata nel 1936 dal giornale La Cucina Italiana. Ancora oggi il Caffè Mulassano è celebre per i suoi tramezzini e ne offre più di quaranta varietà.
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